Origine, storia e diffusione del Pallagrello in provincia di Caserta
La provincia di Caserta, non a caso definita Terra di Lavoro, è caratterizzata da un alternarsi di paesaggi agricoli, montani, collinari e di pianura che si sono arricchiti nei secoli di diverse colture. La zona collinare interna della provincia di Caserta (figura 1) è dominata da un’olivicoltura e da una viticoltura di antica tradizione oltre ad altre produzioni di limitata presenza ma cariche di altrettanta storia ed importanza (vedi castagneti e noccioleti). Dovendo limitare la nostra trattazione alla storia del Pallagrello è bene partire da momenti storici di indubbia realtà. Il Pallagrello è un vitigno proprio della provincia di Caserta, anzi, per meglio dire, è un vitigno proprio dell’antica “Terra di Lavoro” che come è noto è stata scorporata, con aggregazione di parte del territorio ad altre province anche non campane, durante gli anni della vigenza del governo Fascista. Pertanto oggi tracce di questo vitigno, anche se con denominazioni diverse, si trovano nella provincia di Frosinone ed in particolare nel comune di Roccasecca ove viene chiamato “Pallagreglie”, ed anche in provincia di Isernia nel comune di Venafro dove viene chiamato “Pelagrello”. Fatta questa premessa si può anche affermare che forse il Pallagrello è uno dei pochi vitigni (se non l’unico) con riferimento al quale si può constatare la specifica presenza dello stesso, nello stesso territorio senza alterazioni e/o modifiche se non sul piano culturale. Questo discorso trova riscontro sul lavoro di alcuni autori di storia locale, tra i quali Gianfrancesco Trotta, il quale nella sua opera “Discussioni Storiche Alifane” – pag. 79 e seg. – si richiama parlando del Pallagrello, “Silio Italico – XII – 526” il quale parlava di un vitigno detto “Pilleolata”:
“A ragion ne siano di dolcissimi oli, di saporitissime frutte e soprattutto di prelibatissimi vini ferace. Quelli che sono oggidì in tanta stima. Onde sono sorpreso da maraviglia che un moderno scrittor, fra le viti aminee non abbia veduto nel luogo di Macrobio…. la Pilleolata, così simil di nome e di fattezza alla nostra Pallagrella, avendo gli acini rotondi e piccoli, come tante pallette, e così i bianchi come i neri suoi grappoli…. quella che, coltivata nei nostri poderi è di sapore dolcissimo e serve a dare quel bel colore rubino”.
È evidente la quasi certa identificazione dell’attuale Pallagrello nel vitigno “Pilleolata”, sia per l’uso del sinonimo e la sua volgarizzazione, sia per la collocazione territoriale del vitigno. Infatti il termine “Pilleolata” in latino significa “piccola palla”, quindi è incontestabile che nella fase di volgarizzazione del linguaggio latino, da “Pillola” si sia passati a “Pallagrella” e successivamente a “Pallagrello”.
"Il vino aggiunge un sorriso all'amicizia ed una scintilla all'amore"
Edmundo De Amicis
Ma ritornando indietro negli anni e riprendendo quanto scritto da Manuela Piancastelli – autrice di un approfondimento storico sul Pallagrello – viene da chiedersi quale potesse essere il pensiero di Ferdinando IV di Borbone, quando, nel territorio compreso tra monte San Silvestro ed il Belvedere di San Leucio, poco lontano dalla Reggia di Caserta, ordinò ai suoi giardinieri la creazione della Vigna del Ventaglio “un semicerchio – si legge in una descrizione del 1826 – diviso in dieci raggi, tanto da somigliare ad un ventaglio che ne ha preso e ritenuto il nome. Ciascun raggio che parte dal centro ov’è il piccolo cancello d’ingresso, contiene viti di uve di diversa specie contrassegnate con lapidi di travertino”. Il colpo d’occhio doveva essere formidabile pari ad altre architetture più celebri, dal Parco Vanvitelliano al Giardino Inglese.
La vigna del Ventaglio appare dunque – scrivono Annamaria Bitetti e Giancarlo Pignataro, autori di una mostra sul tema – un richiamo ad un oggetto particolarmente caro a quella leziosità caratterizzante il gusto delle corti del ‘700, il ventaglio appunto, che qui viene accomunato al vino, prodotto prezioso e prelibatezza per il palato. Nei dieci raggi, altrettante diverse qualità di uve, tutte del Regno delle Due Sicilie, ma solo due campane e segnatamente Casertane: il Piedimonte rosso ed il Piedimonte bianco. Facciamo ora un salto nel lontano 1759, anno in cui veniva pubblicato “Il Dizionario Geografico”, stampato in Napoli presso lo stampatore “Benedetto Gessari”. Trattasi di un dizionario geografico (ovvero: descrizione di tutti i Regni, Province, Città, Patriarcali, Vescovadi, Forti, Fortezze, Cittadelle, ed altri luoghi considerabili delle quattro parti del mondo) tradotto dall’inglese nel francese a dal francese e nell’italiano con eventuali aggiunte poste in essere dai redattori (nom. conosciuti) della edizione italiana. Leggendo detto dizionario, alla voce “Alife” si legge: “Alife è diventata celebre ….. per i squisitissimi vini che produceva il suo terreno, mentovati da Orazio, oggi però questi vini sono più conosciuti sotto il nome di “quei di Piedimonte (vedi Piedimonte)”.
Quindi sempre controllando detto dizionario ed esaminando la voce “Piedimonte”, si legge tra l’altro: “i vini di quella contrada sono eccellenti, così bianchi come rossi e sono dei migliori del regno così per la loro qualità e natura come per la grata sensazione che risvegliano nel palato. Vanno sotto il nome di Pallarelli e sono stimatissimi nei pranzi”.
Le suddette affermazioni trovano conforto anche in altre affermazioni di carattere oggettivo, infatti i Borbone avevano in Piedimonte Matese (che una volta si chiamava Piedimonte d’Alife) una vigna di circa 27 moggia casertane (che equivalgono a 9 ettari della moderna agronomia).
Detta vigna era sita nel luogo ove oggi sorge l’ospedale civile e detto luogo veniva chiamato “Monticello”. Il rispetto che i Borbone avevano e pretendevano per questo luogo era massimo e lo dimostra una lapide (oggi affissa nella località Monticello) datata 1775 posta all’ingresso della suddetta vigna con la quale venivano avvisati i cittadini del divieto assoluto di attraversare la vigna pena sanzioni severe: “Ferdinando IV di Borbone, per grazia di Dio Re delle Due Sicilie … …banno e comandamento da parte della Gran Corte della Vicaria col quale si fa noto a tutte e qualsivogliano persone di qualunque grado o condizione sia che da oggi avanti e dopo la pubblicazione del presente non ardiscano né presumano di passare né ripassare per dentro la masseria di moggia 27 circa vitata fruttata ed olivata di D. Angelo Pertusio sita nelle pertinenze della città di Piedimonte nel luogo detto Monticello, tanto di notte quanto di giorno con lume e senza nè a piedi nè a cavallo né con carri carrette o some né in quella introdurvi veruna sorte di animali né cogliere frutti così acerbi che maturi ne rompere frasche di alberi fruttiferi o infruttiferi né rompere vadi o siepi né in quella farci veruna sorte di danno sottopena di ducati cinquanta per ciascheduno contraveniente tutte volte quanto controveniranno al presente banno applicandi a beneficio del regio fisco.
Dato in Napoli dal Palazzo della Gran Corte della Vicaria lì 30 di marzo del 1775 = Philippus Mazzocchi = Bonaventura, Cenatienpo”…
Una multa salatissima per quell’epoca che conferma la predilezione del Re per il vino proveniente dalla località Monticello, lo stesso decantato quasi mezzo secolo prima, nel 1729, dal poeta Nicolò Giovo, nel “Brindisi di Eudipio”: “Ecco primier già spillo il dolce Pallagrello ‘ che da ‘ suoi tralci stilla Monticello. Ecco n ‘empio il bicchiere e mentrè fuma e brilla, e tremula e zampilla, questo di buon sapore spiritoso licore, a te … volgo la fronte”. Ed addirittura il poeta aggiunge di preferire questi vini, sia bianchi che rossi ai vini di Gragnano e del Vesuvio, al Greco ed al Moscatello, al chianti e all’Aretino oltre che ai vini francesi e spagnoli: “non mi fa contento e lieto il Clarotto, e ‘l vin di Orvieto ne il francese di Sciampagna o il fumoso vin di Spagna …. Ma sol quello parmi bellò ch’offre a voglie accese e pronte, il Signor di Piedimonte”.
Ma il Pallagrello non si coltivava solo a Piedimonte. Di fatti tracce di questo vitigno si trovano (come già menzionato in precedenza) anche in altre aree vicine e/o contigue ai comuni di Piedimonte ed Alife.
Così il Lucenteforte ne segnala minuziosamente la presenza in Venafro (IS) (ossia a Nord di Alife e Piedimonte) già a fine ‘800, mentre Giuseppe Frojo, nel 1847, ritrova lo stesso vitigno più a sud, ossia nei tenimenti del comune di Caiazzo così come confermato anche da Violante e Bordignon: “Presso Caiazzo o con l’uva Coda di Volpe o con pallagrella è possibile ottenere vini buoni e serbevoli ma la quantità ne è poca….” anche ed in particolare, più a sud di Piedimonte, ossia nei comuni di Caiazzo. Altra zona di espansione del pallagrello è stata sicuramente l’alto casertano, in particolare nel comune di Conca della Campania, espandendosi fino a Roccasecca in provincia in Frosinone.
Infatti è del 1910 una relazione ministeriale che identifica come zona di buona produzione del Pallagrello quella di Conca della Campania, dalla quale già dal 1800 venivano prodotti buoni vini: rossi consumati principalmente in Napoli, chiamato il “rosso di Conca” (tratto dalla libera ricerca storica sul Pallagrello dell’Avv. Barletta Alberto). Ma ancora parlando di Pallagrello l’autore Rasetti in “Giornale di Agricoltura” del 1904, sul quale fa accenni sulle Vitae Aminee, introdotte dai Palagi nell’Italia meridionale e dalle quali sarebbero nate, secondo i siti e le tecniche di coltivazione, le viti ed i vini Falerno, Cecubo Sinessano, Trebulano, Gauro, Pallagrello, etc. Parlando unitamente senza distinzioni di vitigni e di vini, non si è mai potuto con precisione identificare quali dei predetti termini fossero indicativi di vini e quali di vitigni, ma non si può trascurare di affermare che tra i detti sinonimi l’unico che certamente si riferisce incontestabilmente ad un vitigno, per quanto già detto, è certamente il Pallagrello.